CAVE DI MARMO: RIFLETTIAMOCI UN PO’

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A Carrara, città Toscana al confine con Liguria e Emilia – dove si parla uno strano accento che somiglia poco a quello toscano – il marmo si vede anche dall’autostrada, tra i profili delle Alpi Apuane che la costeggiano. Le cave sono grossi buchi artificiali nelle montagne: a volte si sviluppano sul loro fianco, fino ad assomigliare a enormi scalinate; altre volte partono da un punto preciso e si estendono tutto intorno. Poi ci sono cave che si scavano in galleria. Il marmo è la montagna: quando lo si toglie ne sparisce un pezzo e rimane una grossa macchia bianca tra il verde degli alberi.

Giovedì 14 aprile 2016 Federico Benedetti e Roberto Ricci Antonioli stavano lavorando nella cava 171 del bacino di Gioia. Una giornata come un’altra, “lavoro di bonifica”: significa che bisogna tagliare via un pezzo di montagna instabile. Un taglio di bonifica non è una delle cose più pericolose che si possano fare in cava; Federico Benedetti e Roberto Ricci Antonioli erano due cavatori esperti. Probabilmente non si aspettavano che la frana sarebbe stata così grande: forse c’era un difetto occulto nella roccia, forse il taglio non era stato pianificato a dovere. Quando la frana è caduta si è trascinata dietro anche la parte di montagna dove stavano lavorando, e li ha travolti.

Per secoli le cave di Carrara sono state quasi del tutto isolate dalla città e lavorate da figli e nipoti di cavatori, come una cosa di famiglia. Dell’incidente del 14 aprile si è parlato molto, sono affiorati i racconti di quei posti e dei pericoli del lavoro nelle cave, dove le pratiche quotidiane sono regolate da leggi e abitudini radicate, vecchie centinaia di anni, e dove il turismo è giunto per osservare “il marmo più famoso del mondo”.

Negli ultimi 400 anni si sono fatti enormi passi avanti nell’estrazione e lavorazione del marmo. Prima del Settecento si usavano attrezzi molto rudimentali che permettevano di avanzare nel taglio di pochi centimetri al giorno. Poi è arrivato l’esplosivo, che permetteva di andare più velocemente ma era pericoloso e comportava la perdita di molto materiale. Alla fine del secolo successivo si iniziò a usare il filo elicoidale e dagli anni Ottanta del 1900 il filo diamantato, la tecnologia che ha rivoluzionato più di tutte le altre l’industria dell’estrazione del marmo. Alla fine del 1800 le cave non erano raggiungibili con le strade, ma solo a piedi e dopo un paio d’ore di cammino. I blocchi tagliati, per esempio, venivano portati a valle uno alla volta usando le lizze: slitte di legno che venivano fatte scivolare a valle da squadre di 10 o 12 persone.

Negli anni Cinquanta si estraevano 250.000 tonnellate di marmo ogni anno; oggi se ne estraggono circa un milione con una piccola frazione della mano d’opera necessaria allora però “In cava si muore”, dice Paolo Gozzani, segretario della Camera del Lavoro di Carrara, spiegando come per molti cavatori la natura pericolosa del loro lavoro sia persino più di una realtà accettata.

È uno degli aspetti più difficili da capire della vita intorno alle cave e ha a che fare con l’intreccio di storia e vecchie abitudini che sembra aver tenuto insieme tutto, almeno fino a qui.

Il lavoro nelle cave oggi non è pericoloso come sessant’anni fa – sono migliori le tecnologie, la conoscenza della montagna, la pianificazione del lavoro e le norme di sicurezza – ma i numeri degli infortuni e delle morti mostrano che ancora non è sufficiente. Secondo i dati raccolti dalla ASL locale, tra il 2006 e il 2015 ci sono stati una media di 102 infortuni all’anno, parecchi se si considera che in tutto nelle cave di Carrara lavorano tra le 700 e le 800 persone, e 9 infortuni mortali. A volte sono effettivamente incidenti, altre volte gli infortuni avvengono per la troppa sicurezza di chi fa quel mestiere da molto tempo, altre volte il problema è che si lavora troppo, anche quando non si dovrebbe: se piove, se nevica, se il terreno è ghiacciato.

In cava ci sono molte apparenti contraddizioni… I sindacalisti, a Carrara, si lamentano dei ritmi di lavoro sempre più alti, che rendono il lavoro più pericoloso e le montagne più sfruttate e insicure; ma gli stessi sindacalisti, e chi lavora in cava, raccontano con orgoglio del loro lavoro duro, del sacrificio, del fatto che siano tutti una famiglia.

A complicare qualsiasi cosa si voglia fare con le cave, infatti, c’è la questione del loro contestato status giuridico, che è per molti aspetti immutato dal 1751. Le cave sono da tempo considerate una sorta di bene comune. Quando, tra il Diciassettesimo e il Diciottesimo secolo, l’attività estrattiva si fece più intensa e redditizia, le cave erano dei “comunelli”: terreni demaniali il cui uso era riservato agli abitanti del posto. Nel tempo l’uso delle cave era diventato però confuso ed opaco, con frequenti attribuzioni di diritti di proprietà da parte di diverse persone, allargamenti di confini e dispute. Nel 1751 si provò per la prima volta a mettere un po’ d’ordine: chi lavorava da almeno vent’anni un certo pezzo di montagna avrebbe ottenuto una sorta di concessione perpetua e gratuita per la sua escavazione – i cosiddetti “beni estimati”, cioè iscritti nel registro degli estimi – mentre gli altri avrebbero dovuto lasciarne la gestione al ducato di Massa e Carrara.

La situazione creata nel 1751 è quella che di fatto esiste ancora oggi, naturalmente con diverse complicazioni. I “beni estimati” nel corso degli anni sono stati ereditati, ceduti e venduti; per chi li possiede oggi, sono di fatto come una concessione perenne. Molti degli attuali proprietari di cava hanno “beni estimati”; il problema è che per la legge italiana le concessioni perpetue e gratuite per lo sfruttamento di un bene comune non sono valide.

In questa enorme incertezza, attualmente i sindacati vorrebbero passare al sistema delle concessioni, per avere maggior controllo e influenza nei confronti dei proprietari delle cave; mentre i proprietari delle cave temono che se si assegnassero tutte le concessioni con un bando, verrebbero estromessi da società straniere più grandi e ricche. Allo stesso tempo, i proprietari sono però restii a fare investimenti e migliorare la qualità delle loro aziende, sapendo che potrebbero perdere le cave in pochi anni.

A seguito degli eventi dello scorso aprile 2016, il presidente della Regione Toscana ha firmato, nel mese di luglio 2016, un protocollo di intesa, siglato con le procure di Lucca e Massa e le procure generali di Firenze e Genova, con il quale si avvia l’attuazione di un piano straordinario biennale per incrementare i controlli. L’accordo prevede anche l’istituzione di un tavolo di monitoraggio, per verificare periodicamente l’andamento delle azioni di prevenzione e di contrasto messe in atto.

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