Negli ultimi anni stiamo assistendo a un fenomeno a cui oggi diamo il nome di “Great Resignation” o grandi dimissioni. Un fenomeno che si è accentuato con la pandemia e con cui molte aziende devono fare i conti.
Le dimissioni dalla propria azienda sono diventate sempre più frequenti rispetto a un passato dove molte persone hanno speso l’intera vita lavorativa nella stessa realtà. Erano i tempi in cui, mediamente, si lavorava per il salario e, anche se con tanti disappunti, le persone continuavano a lavorare anche in luoghi di lavoro dove le relazioni non erano delle migliori. La giustificazione era “il capo è il capo” e comunque non era così immediato trovare un nuovo posto di lavoro mandando il curriculum e facendo il colloquio. In sostanza ci accontentavano. Basterebbe parlare di lavoro con i genitori per comprendere un punto di vista molto diverso.
Oggi la rete ha favorito le relazioni, ha semplificato l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e sapere che nella nostra città dei sogni cercano un profilo proprio come il nostro è diventato molto più semplice.
Non esattamente. Sicuramente mandare una mail all’ufficio del personale o rispondere a un annuncio su Linkedin aiuta molto, ma cosa spinge una persona a desiderare scenari diversi dal presente che sta vivendo? Se c’è un aumento di oltre il 10% in due anni di questo fenomeno, la ragione non può essere solo una buona connessione internet.
Il lockdown, la paura del contagio e tutte le restrizioni che abbiamo dovuto osservare hanno accelerato un processo di consapevolezza sulla necessità di equilibrio tra privato e lavoro: un fenomeno già in atto nella cultura dei lavoratori più giovani e divenuto dilagante in gran parte delle fasce d’età in questo periodo.
La sostanza è che scendiamo meno a compromessi, il “capo” non ha più piglio sulle persone e la leadership non è più un vezzo, ma un’esigenza. I lavoratori oggi desiderano responsabili, direttori e manager che tengano di conto dell’aspetto umano del lavoro, che parlino di relazioni piuttosto che di organizzazione del lavoro. Lavorare a testa bassa senza fiatare non è più una condizione accettabile e lo dimostrano i colloqui di lavoro che sempre più vertono sulla flessibilità oraria, lo smartworking e una cultura del lavoro orientata sempre di più ai risultati piuttosto che al tempo speso a lavorare.
Non è un caso che le aziende che soffrono di più questo fenomeno sono quelle che si sono disinteressate di un mondo del lavoro che sta cambiando e pensano che tutto possa essere gestito come un tempo: “io ti pago e tu lavori”. Possiamo quindi dedurre che la carenza di organizzazione, di cura delle relazioni e di flessibilità sul lavoro siano diventati degli “stressor” rilevanti, tanto rilevanti da portare le persone a fare altre scelte lavorative.
Si auspica pertanto a una revisione delle linee guida INAIL sullo stress lavoro correlato che oggi più che mai risultano essere un inutile esercizio per rispettare un obbligo cogente. A prescindere dal documento oggi le aziende devono essere capaci di misurare il clima aziendale e intervenire tempestivamente per garantire un welfare adeguato alle attese. Non si parla di benefit materiali, ma prima ancora di un’attenzione nella qualità della vita lavorativa della persona.
Potrà sembrare un vezzo costoso occuparsi di comunicazione in azienda e di quanto le persone siano o meno stressate, ma quanto è dispendioso perdere le proprie risorse, dalle più strategiche alle meno esperte?
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Articolo di Stefano Pancari