Il mobbing è molto più diffuso di quanto non emerga dai dati ufficiali, perché è difficile individuare le cause o gli elementi che possono portare ad una causa in tribunale. Illuminante può essere la sentenza n.87 del 10 gennaio 2012 emessa dalla Corte di Cassazione, che evidenzia i comportamenti che possono essere considerati di mobbing. Una volta che la situazione di disagio si configuri come tale, la condotta lesiva giustifica infatti la causa ed il conseguente risarcimento del danno.
Come ricorda la Cassazione, il mobbing si definisce come:
«Una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del lavoratore, con effetto lesivo del suo equilibrio fisico-psichico e della sua personalità».
Gli elementi riconosciuti dalla Corte di Cassazione come mobbing sul lavoro, e quindi necessari affinché si prefiguri un’accusa, sono:
Il mobbing può avere luogo anche tra colleghi, ma non sempre è facile capire quali siano le azioni che rientrano in questo tipo di molestia.
La sociologia ha mutato il termine Mobbing da una branca dell’etologia, designandovi il complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro a cui appartiene. A livello nazionale, incredibilmente, ancora non vi sono norme specifiche in materia. Il fenomeno trova la propria regolamentazione dal principio generale di cui all’articolo 2087 c.c. che stabilisce – quale effetto del contratto – l’obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità del prestatore di lavoro.
A tale obbligo si connette pure il combinato disposto degli articoli 2049 e 2059 c.c. ed il regime di corresponsabilità del datore di lavoro per i fatti compiuti dai propri dipendenti. Secondo la Cassazione, pertanto, il Mobbing non è altro che un aspetto della violazione dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro. Trattandosi di una ipotesi di responsabilità contrattuale, competente è il Giudice del lavoro, anche se il rapporto coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici (ad esempio nell’ambito sanitario).
La responsabilità del datore di lavoro (Corte di Cassazione, 11 settembre 2008, n. 22858) sussiste qualora, pure in assenza di un suo specifico intento lesivo, il comportamento illecito sia posto in essere da altro dipendente per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo; tanto meno si può escludere la responsabilità del datore di lavoro quando i fatti lesivi siano effettuati da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima. Pertanto, l’onere del datore di lavoro è di vigilare sul comportamento dei dipendenti e adottare azioni necessarie per far cessare tali comportamenti; azione che devono essere concrete ed efficaci, visto che un mero intervento “pacificatore” non è sufficiente per esonerarlo dalla responsabilità a risarcire i danni arrecati alla vittima.
La Giurisprudenza attribuisce rilevanza al Mobbing qualora si ravvisi in concreto una reiterazione nel tempo di condotte lesive: la natura vessatoria, infatti, è svelata da una serie di elementi quali frequenza, sistematicità, durata nel tempo, progressiva intensità, coscienza e volontà di aggredire, disturbare, perseguitare, svilire la vittima.