I primi open space furono concepiti dai consulenti gestionali di un’azienda di Amburgo in Germania, negli anni ’50 al fine di incrementare la comunicazione, lo spirito di gruppo degli impiegati e a condividere tra loro le proprie idee. Negli ultimi 20 anni questa concezione di uffici condivisi è stata applicata da tutte le aziende, dalle grandi alle piccole. Ma non tutti sono amanti degli open space, in molti ritengono l’eccessiva vicinanza tra colleghi di lavoro una fonte di distrazione per essi e una causa di stress più probabile.
Il problema legato alla condivisione degli spazi lavorativi non è un problema solamente italiano.
Nel giugno del 1997 una società canadese che si occupa di estrazione di petrolio e gas ha chiesto all’Università di Calgary uno studio per valutare il passaggio da uffici singoli ad un regime di open space. Gli psicologi hanno valutato la soddisfazione dei dipendenti con l’ambiente circostante, il loro livello di stress, le prestazioni lavorative, le relazioni interpersonali prima della transizione, quattro settimane dopo e sei mesi dopo il passaggio ad un ufficio condiviso. I risultati hanno dimostrato che il passaggio ha avuto effetti negativi per gli impiegati: il nuovo spazio interrompeva le attività degli impiegati con la conseguenza che, invece di sentirsi più vicini, i colleghi si sentivano più lontani, insoddisfatti e risentiti. Il livello di produttività cadde.
Nel 2011, alcuni psicologi statunitensi, hanno pubblicato saggi nei quali si indicava che, anche se gli open space hanno spesso favorito un senso simbolico della mission aziendale, incrementando il senso di appartenenza ad un’impresa moderna ed innovativa, questi risultavano dannosi per l’attenzione dei lavoratori nei processi produttivi a lungo termine riducendo la creatività e la soddisfazione personale. Rispetto agli uffici normali gli impiegati manifestavano interazioni meno controllate, livelli più elevati di stress e più bassi livelli di concentrazione e motivazione. Esaminando un campione di circa 38mila lavoratori lo psicologo David Craig giunse alla conclusione che le interruzioni dei colleghi erano dannose per la produttività, e notò che la maggior parte dei colleghi anziani decidevano di lasciare l’azienda.
A livello psicologico, gli effetti degli open space sono facilmente riscontrabili. Le barriere fisiche sono strettamente legate alla privacy psicologica, e in una certa misura, la privacy aumenta le prestazioni lavorative.
L’assenza di barriere tra le varie postazioni di lavoro può portare anche a sentimenti di impotenza da parte dei lavoratori. In un altro studio del 2005, volto ad esaminare l’organizzazione di varie aziende americane, si è scoperto che la capacità di controllo degli ambienti lavorativi ha un effetto significativo sulla coesione di squadra e sulla soddisfazione personale. Quando gli impiegati non potevano cambiare i parametri degli ambienti circostanti, l’illuminazione e il microclima, o scegliere come condurre le riunioni, il loro morale crollava. Tuttavia, i lavoratori più giovani danno meno importanza alla mancanza di privacy e alla mancanza di controllare il loro ambiente e ritengono questi fattori tutto sommato accettabili se si considera il tempo trascorso a socializzare con i colleghi, i quali vengono spesso identificati come amici anche fuori dagli ambienti lavorativi.
Un ambiente di lavoro aperto può anche avere un impatto negativo sulla nostra salute. In una recente ricerca danese effettuata su un campione di oltre 2000 dipendenti, si è scoperto che il numero di persone che lavorano in uffici per due persone hanno una media di congedi per malattia del cinquanta per cento maggiore rispetto agli impiegati che lavorano in stanze singole, mentre i lavoratori operanti negli open space raggiungono addirittura una media del 62% in più.
L’aspetto più problematico di questi spazi può essere di natura fisica piuttosto che psicologica: il semplice rumore. E’ evidente che il rumore riduca le prestazioni cognitive dell’individuo. Gli studiosi degli effetti dei suono sul nostro modo di pensare affermano che i rumori alterano la capacità dei lavoratori di recuperare le informazioni, e anche di fare operazioni aritmetiche di base. L’ascolto della musica per bloccare l’intrusione di rumori imprevisti non aiuta, anche questo va ad alterare l’acume mentale. Uno studio condotto dalla Cornell University dimostra che gli impiegati che sono stati esposti al rumore da ufficio in un open space per tre ore continuative avevano aumentato il proprio livello di epinefrina, e sviluppato la cosidetta “fight-or-flight response”, cioè una reazione fisiologica, dovuta al nervosismo, che avviene in seguito alla percezione di un evento esterno ritenuto potenzialmente dannoso o minaccioso. In più si è scoperto che le persone che lavorano in ambienti rumorosi adottano posture incongrue e/o poco ergonomiche, cosa che non farebbero in privato, causando un maggior stress fisico per il soggetto.
Anche se i cosiddetti “Millennials”, ovvero coloro che si sono affacciati nel mondo del lavoro dall’anno 2000 in poi, sembrano più disposti ad accettare distrazioni come norma sul posto di lavoro, gli open space possono genere cicli di scarsa produttività e possono anche portare ad effetti nocivi nel lungo periodo per il lavoratore.
Tutte queste ricerche hanno stabilito che la curva d’attenzione e la creatività degli impiegati sono penalizzate dagli open space. Ma queste concordano che il segreto stia nel come vengono organizzate e predisposte le postazioni di lavoro in base alle persone. Bisogna alternare i lavoratori che producono più velocemente, ma con qualità minore, a quelli che invece impiegano più tempo per generare prodotti di qualità superiore. Dati empirici suggeriscono che il contatto tra queste due tipologie di risorse ha risvolti positivi: sprona i primi a migliorare la qualità e i secondi i tempi di realizzazione.
Per migliorare gli open space bisognerà porre attenzione a creare il giusto equilibrio tra i diversi tipi di impiegati che andranno a condivedere lo stesso spazio di lavoro.